I giorni buoni
di Elisa Genghini
Perché essere felici per una vita intera sarebbe quasi insopportabile, diceva Mario Venuti in una canzone cantata insieme a Carmen Consoli. Me lo ricordo bene quell’anno, quell’estate. Me lo ripetevo spesso, non si può essere felici per una vita intera, avevo sedici anni, mi aveva lasciato il fidanzato per un’usanza consolidata tra gli adolescenti di allora e forse anche di oggi. La morosa si lascia in estate e se ne prende una nuova di pacca in inverno.
Così mi ripetevo che non si può essere felici per una vita intera però eccheccavolo, nemmeno sempre tristi arrabbiati e depressi. Ho passato due mesi a guardare il soffitto di camera mia e a compatire la mia situazione di fanciulla abbandonata. Poi un giorno di fine agosto mi aveva chiamato una mia vecchia amica e mi aveva detto “andiamo al Country House a ballare sui tavoli sabato sera?” E io sono andata. E’ stato un giorno buono.
Nel tempo, ho adottato la politica dei giorni buoni. Che sarebbe il contrario di quello che dicono Consoli e Venuti: non ci si può sentire degli sfigati in eterno. Nell’economia di una vita, anche solo per un fatto di mera statistica, ci sono anche dei giorni che vanno bene, e se possono essere proprio giorni interi, sono pomeriggi, sere, mattine, ore, minuti, istanti in cui non tutto va così male. Io dispongo di una discreta collezione di giorni buoni, per dire. Niente di eroico, niente che abbia cambiato la mia vita, nessuna epifania stravolgente, nulla che valga la pena di ricordare ma che io comunque devo e voglio ricordare.
Un giorno in cui a gennaio, nel cortile del mio posto di lavoro è fiorita una rosa.
Uno che ero seduta su una panchina in un parco e un netturbino mi si è avvicinato e mi ha detto “sei bella vuoi uscire con me?”, io gli ho detto che avevo un impegno e allora lui è andato da un’altra ragazza seduta qualche panca più in là e le ha detto “Sei bella vuoi uscire con me?”.
Il giono che il mio capo ha spinto a mano per un chilometro la mia macchina morta all’improvviso in mezzo ad un incrocio mentre venivo a lavorare, fino a raggiungere l’autofficina più vicina.
Il giorno che piangevo di ritorno da Vienna perché lasciata da un altro fidanzato e un signore di origini orientali mi ha offerto un panino gigantesco ripieno di qualcosa che non saprei definire, ma che ho sbranato in due bocconi, tanto era delizioso.
Il giorno in cui (e questo è successo qualche domenica fa) ho chiamato due amiche e ho proposto di andare alla Bocciofila di Pontelungo perché avevano organizzato un piccolo concerto pomeridiano su un prato e siamo andate con i nostri figli di due anni, abbiamo steso un tappeto e abbiamo ballato come delle matte, perché era un giorno buono, finalmente, dopo tutto questo lungo inverno di chiusura.
Non eravamo al Wembley Stadium ecco, e tantomeno ad un concerto degli Stones, ma quel pomeriggio, alla bocciofila ho avvertito il ritorno di qualcosa che mi è mancato, una possibilità di ripresa, un giorno di straordinaria normalità, un giorno buono.
Il lunedì successivo è piovuto tutto il giorno e mia figlia si è presa la sesta malattia o cose simili. Del resto essere felici per una vita intera sarebbe quasi insopportabile.
Per questo amo i giorni buoni.
Crediti:
L’immagine di copertina è uno scatto di Carol Alabresee