Skip to content
BALLATE 11

In Liverpool
di Elisa Genghini

Un giorno come tanti, una panchina e Suzanne Vega.

Vi racconto la storia di una che aveva avuto tempo. Niente di che, ve lo anticipo già, è una storia di un giorno come molti altri, di quelli che abbiamo tutti noi, di quelli dove non succede uno stracavolo di niente. Li abbiamo tutti, su, non vergogniamoci di dirlo, ammettiamolo, non è vero che siamo sempre incasinati, pieni di cose da fare, grandi imprese da compiere, agende blindate, via. Non siamo mica tutti  il Presidente degli Stati Uniti, il Papa o Beyonce, mi sbaglio? E’ solo che va di moda dire che non abbiamo mai un minuto, ogni tanto anche io casco dentro questa barzelletta, figuriamoci, sono la prima. 

Un giorno avevo preso due appuntamenti lo stesso giorno in due luoghi vicini, nei dirtorni di porta Mazzini, cose burocratiche noiosissime, tipo patronati, assicurazioni o roba simile.  Terminato il primo, mi ero accorta che avevo circa tre quarti d’ora da aspettare, prima di recarmi all’appuntamento successivo che era a cinquanta metri da lì, metro più o mento meno. Sono andata a prendermi un caffè al banco, non c’erano tavolini ai quali sedersi. Ancora quaranta minuti liberi.

Uscita dal bar, ho camminato lungo i portici di via Mazzini poi ho voltato a destra verso piazza Trento e Trieste, dove c’è il Tribunale. Lì c’è un parco, qualche gioco per bambini credo, ai tempi non ero ancora madre, a certe cose non facevo caso come adesso che ho il radar puntato su reti a molla, gonfiabili, scivoli e giostre varie per intrattenere il mio piccolo uragano Irma.  Un bar sbiadito in lontananza, qualche panchina disseminata in qua e in là.

Trentacinque minuti liberi, non mi ero portata un libro. Non mi ero portata da scrivere. Il mio telefonino era scarico, non avevo che me stessa. Trentadue minuti liberi.  Camminavo lentamente intorno la panchina, strisciavo con i piedi cercando di prendere a calci qualche foglia autunnale caduta da un grande platano, o almeno ricordo che ci fosse un platano a riparare le panchine dal sole, che nonostante fosse autunno, era ancora cado e penetrante.  Incerta sul da farsi guardavo l’orologio e notavo che avevo ancora trenta minuti liberi.  Sentivo che qualcosa non andava, qualcosa provocava in me turbamento e disagio, ma che non capivo cosa fosse.  Era il tempo libero. Avevo ventotto, ventisette minuti e non sapevo che diavolo farmene. Mi vergognavo di non sapere come impegnarli, non avevo nulla che mi portasse altrove, niente che condizionasse il vivermi proprio quei minuti per quelli che erano, ventisei, venticinque minuti. Mi ero seduta sulla panchina, confusa, con le scarpe un po’ sporche di terriccio umido spostavo i mozziconi delle sigarette e con le punte disegnavo mezze lune, i piccioni svolazzavano intorno e potevo sentire il rumore del loro battito di ali che conosco bene, lo stesso che sento tutte le mattine quando apro gli scuri di casa mia e loro si spostano dal davanzale dove dormono. Ventitré, ventidue, ventuno minuti. Stavo ferma lì, incerta e fragile come avessi paura di rompermi. Chissà cosa pensano di me i passanti, forse che sono una che non ha niente da fare nella vita, una perdigiorno, chi mai si siede su una panchina alle due e trenta circa del pomeriggio senza avere niente di meglio da fare? Ecco cosa pensavo mentre guardavo in basso per non incrociare gli altrui sguardi inquisitori.  “Penseranno che io sia una tossica, una pazza, un’ubriaca, una donna triste, abbandonata, perché queste solo le persone che si siedono su una panchina da soli in un parco, e il tempo non passa mai, non passa mai per loro che sembrano imprigionati sempre nello stesso minuto, nello stesso secondo mentre io sono uguale, uguale a loro” e infliggevo a me stessa la mia sola compagnia ancora per venti, diciannove, diciotto minuti, “mioddio come sono patetica”, pensavo. 

Ad un certo punto, mentre avevo ancora quindici, quattordici minuti liberi, qualcosa in me è scattato.  E’ arrivata Suzanne Vega, dritta nella mia testa. E dalla mia gola affiorava un mormorio quasi involontario.  Mi sono sorpresa a canticchiare a bocca chiusa. In Liverpool are Sunday, no traffic on the avenue. Come fosse stata la chiave di tutta quella giornata ho cominciato a pensare a tutte le panchine su cui mi sono seduta, quella sul porto di Liverpool dove mi sono fermata semplicemente a realizzare che ero a Liverpool, accidenti, e che forse in quello stesso posto ci erano passati John Lennon o Paul McCartney; a quella panchina su cui ho dato il mio primo bacio, a Rimini, quella su cui ho aspettato per ore un bus a Sofia con le tabelle orarie in Cirillico che non si capiva niente, quella davanti a Guernica al museo Reina Sofia di Madrid, quella in Germania  di fronte al Memoriale di Ravensbruk, dedicato a tutte le donne deportate dai nazisti.  Ed ecco che quei dieci, nove minuti prendevano uno spessore che mai avrei detto, quegli otto, sette minuti cominciavano ad allungarsi, ad allargarsi, perdendo i loro confini e cominciando ad abbracciare i miei ed ecco che cosa può fare l’attesa, la noia, il non avere niente di meglio da fare. Perché non avevo davvero niente di meglio da fare in quei cinque quattro minuti. Niente di meglio che pensare a me, alla mia memoria, a ciò di cui sono fatta, e tutto quello che mi aveva portato fino a lì e a quel momento e mi sembrava di avere evocato come una magia meravigliosa in uno dei momenti più ordinari della mia vita. 

La magia di chi trova il tempo.

Nei tre due minuti che mi rimanevano invece mi sono messa a correre, perché rischiavo davvero di arrivare in ritardo all’appuntamento, pensavo alla scusa da dire, eventualmente, chessò, il traffico, il lavoro, le cavallette. Ma il vero motivo è che avevo avuto tempo, finalmente.  

 

 

Condividi l'articolo: